Nazionalismo economico e protezionismo: l’Europa tra identità e contraddizioni

10:5:36 340 stampa questo articolo
Unione EuropeaUnione Europea

La spinta verso il “Buy European” rilancia il dibattito sul futuro dell’UE: più sovranismo o un vero federalismo?

Nazionalismo e protezionismo, due concetti che sembravano archiviati nella storia economica e politica europea, stanno tornando in auge. L’Unione europea, in risposta alla politica economica fortemente protezionista degli Stati Uniti – dove dazi e incentivi alla produzione interna sono diventati la norma – riflette oggi su misure simili. La Commissione UE vorrebbe infatti rivedere le regole sugli appalti pubblici per favorire l’acquisto di prodotti europei, una sorta di “Buy European” che ricalca lo schema americano: se vuoi evitare barriere commerciali, produci da noi.

Questa nuova impostazione si inserisce nel progetto “ReArm Europe”, nome ancora provvisorio per non urtare le sensibilità di alcuni Paesi membri come Italia e Spagna, ma che punta a rafforzare l’industria interna e il mercato unico. Non si tratta solo di protezionismo, ma di un cambio di approccio che coinvolge anche i rapporti con Paesi come Canada, India e Sudafrica, visti come partner strategici in un contesto geopolitico sempre più competitivo.

Il punto centrale resta però uno: cosa significa tutto questo per i cittadini europei? Davvero una politica di chiusura può garantire condizioni economiche migliori?

I numeri mostrano che circa il 15% del PIL dell’UE deriva dalla spesa pubblica in beni e servizi: oltre 2.000 miliardi di euro all’anno movimentati da circa 250.000 enti pubblici. In questo quadro, orientare gli acquisti verso le imprese europee può sembrare una strategia logica. Ma quali saranno le conseguenze sul piano dei prezzi, dell’innovazione e della concorrenza?

Un esempio attuale riguarda le auto elettriche cinesi, colpite da dazi fino al 45%. L’obiettivo è spingere i consumatori verso le alternative europee. Il risultato? Gli acquisti rallentano, perché i veicoli elettrici restano troppo costosi. Un colpo alle politiche green che molti, spesso per ragioni ideologiche, accolgono con favore, pur avendole formalmente sostenute.

Il rischio è che si inneschi un effetto domino: meno prodotti accessibili, meno sostenibilità, meno apertura. Con una conseguenza sottile ma concreta: un graduale arretramento di quelle libertà sociali, economiche e civili che l’UE ha contribuito a costruire.

Il nazionalismo, anche in versione economica, è una bestia difficile da gestire. L’Europa è nata per superarlo, dopo averne sperimentato le conseguenze più dure. La domanda cruciale, oggi, è se l’Unione voglia davvero muoversi verso un modello nazionalista – anche se “continentale” – o se il suo futuro sia il federalismo: un sistema aperto, attrattivo, inclusivo, come lo sono stati gli Stati Uniti in passato.

È incoraggiante, in questo senso, il tentativo di rilanciare i rapporti con il Regno Unito e di rafforzare le relazioni con Stati federali come Canada e India. Ma per farlo, l’UE non può trasformarsi in una “patria” in senso chiuso. Deve restare una scelta politica ed economica consapevole, capace di attrarre, integrare, investire e – perché no – anche accogliere.

Non sarà semplice. E non aiuta chi tifa per i dazi o si sveglia solo quando le restrizioni diventano realtà. Il progetto europeo – quello che affonda le sue radici nel Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni – ha puntato sulla cooperazione, sulla libertà e su una crescita sostenibile. Saremmo sciocchi a dimenticarlo proprio ora.

Vincenzo Donvito Maxia – Presidente Aduc



Articolo di Analisi & Opinioni / Commenti