Investire in salute è un buon affare

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Solo 9 miliardi alla sanità nel Piano da finanziare con il Recovery Fund. Gli altri fondi necessari andranno presi a prestito. Ma il Ssn sarà capace di generare le risorse per ripagare il debito? Servono gli investimenti giusti e un cambio di paradigma.

Le risorse nel Piano

La delusione è stata forte. Ai primi di settembre sui tavoli del ministero della Salute circolava una lista di 22 progetti per 68 miliardi di investimenti da finanziare con il Recovery Fund, ma la bozza valutata dal Consiglio dei ministri il 7 dicembre contiene solo due macro-progetti per 9 miliardi di euro. Il ministro della Salute Speranza ha dichiarato che, comunque, “la dote ottimale per il Servizio sanitario nazionale resta quella proposta mesi fa al Parlamento: 68 miliardi (…)” e che “si dovrà attingere a tutti i canali disponibili, quelli europei, compreso il Mes, e quelli nazionali”. Affermazioni condivisibili, perché servono grosse cifre per rigenerare la sanità italiana. Ma essendo soldi a prestito, serve anche chiedersi se il Servizio sanitario nazionale saprà generare le risorse necessarie per ripagare il debito. Con le dovute cautele, la risposta può essere affermativa, se il Ssn farà i giusti investimenti in sanità e sulla salute degli italiani e se si terrà una contabilità completa di tutte le ricadute degli investimenti: per lo stato, per l’economia e per la società. Perché ciò che è spesa per il Ssn, è investimento in capitale umano per la società, che quindi ne beneficia.

L’elenco iniziale dei progetti con i finanziamenti previsti è contenuto nella tabella 1, dove sono stati raggruppati per aree di intervento e suddivisi tra investimenti in immobili e tecnologie e spese di sviluppo (correnti) dei servizi esistenti.

Investire nella sanità

Le macroaree di intervento sono cinque: i) le strutture edilizie e le tecnologie sanitarie, la quota preponderante (55 miliardi), ii) il potenziamento dei servizi sanitari territoriali (4,7 miliardi), iii) la ricerca e innovazione (3 miliardi), iv) la formazione del personale (2,6 miliardi) e v) la sanità digitale (1,8 miliardi). Nella prima area erano previsti 12,6 miliardi per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi ospedali e 14 miliardi per la loro messa in sicurezza e adeguamento antisismico, mentre 17 miliardi erano destinati alle strutture territoriali (le “case di comunità” in cui dovrebbero operare medici di famiglia, infermieri e specialisti, aperte 24h/7g) e intermedie (presidi a degenza breve per i malati cronici), oltre a due nuove tipologie: i centri per il contrasto alla migrazione sanitaria (3 miliardi) e alla povertà sanitaria (0,67 miliardi). Nella bozza valutata dal Consiglio dei ministri il 7 dicembre la missione Salute ha solo due componenti: assistenza di prossimità e telemedicina (4,8 miliardi); innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria (4,2 miliardi).

Dei 9 miliardi approvati, circa 6 sarebbero prestiti da restituire all’Ue, mentre la cifra salirebbe a 65 miliardi nell’ipotesi del ministro. Posto che ciò avvenga in 30 anni, a tasso zero, il Ssn dovrebbe quindi generare ogni anno un surplus di 200 milioni nel primo caso o di 2,2 miliardi nel secondo. È realistico? Se il rimborso per i due progetti del Piano di ripresa e resilienza non appare problematico, non è neppure azzardato pensare che il Ssn riesca a restituire i prestiti per i 22 progetti, perché investendo per ampliare l’offerta di servizi territoriali, per la digitalizzazione o per abbattere i costi degli ospedali otterrebbe ritorni economici e, allo stesso tempo, creerebbe anche benefici “esterni” – per la società e per il sistema produttivo – di grande valore, perché salverebbe più vite, ridurrebbe i giorni di malattia e i casi di invalidità. È tipico, infatti, del sistema sanitario (anche privato) produrre sia valore “privato” – il surplus tra ricavi e costi delle aziende sanitarie (che non sempre c’è nel pubblico) – sia valore sociale – la buona salute (outcome), che consente alle persone di lavorare, studiare, fare impresa, realizzare i propri sogni. Attività che hanno un valore economico e si possono monetizzare nel calcolo dei ritorni. Un’analisi costi-benefici dei 22 progetti ipotizzati potrebbe agevolmente dimostrare la loro “redditività”, privata e sociale.

Se con i nuovi investimenti, ad esempio, un ospedale del Ssn accorcia la durata di degenza, tagliando i tempi morti, se con le nuove tecnologie e i nuovi farmaci tratta in day hospital o in ambulatorio casi che prima ricoverava per giorni, se diminuisce gli accessi impropri al pronto soccorso, se attiva la telemedicina non solo abbatte i costi di produzione e genera un surplus, ma produce anche grandi “esternalità positive” per la società.

Nell’ultimo decennio (2007-2017), ad esempio, quasi 4 milioni di persone in meno si sono ricoverate in ospedale, evitando di perdere 20 milioni di giornate, di cui ne hanno beneficiato anche l’Inps – che ha registrato una riduzione di 6,9 milioni di giornate indennizzate al settore privato (assenze superiori a 3 giorni), con un risparmio stimato di 249 milioni – e le imprese, che hanno ridotto tre volte tanto le loro perdite di produzione. Con nuovi investimenti, la degenza media si potrebbe abbattere dagli attuali 7 a 5,5 giorni, come in Francia, Svezia, Usa e altri paesi avanzati, guadagnando in pochi anni altri 10,5 milioni di giornate fuori dall’ospedale, a parità di ricoveri.

Quanto valgono, in moneta, questi benefici sociali, indotti dagli investimenti sul sistema sanitario? Quanto vale, in moneta, la riduzione dei tempi di attesa e dell’incertezza per un esame o un ricovero, la più tempestiva diagnosi di una malattia che salva vite, la fine dei viaggi della speranza?

Investire in salute

C’è però un’altra forma di investimento, che non richiede sempre grossi capitali, ma può garantire un ritorno ancora più alto, perché la sua forza sta nei numeri: investire in salute.

Investire sul capitale salute significa a) evitare che le persone sane si ammalino, rimuovendo le cause ambientali (inquinamento, clima) e modificando i comportamenti a rischio (alimentazione, fumo, alcol); b) diagnosticare precocemente determinate malattie attraverso screening di massa; c) sviluppare nuovi farmaci e tecnologie mediche per curare più efficacemente le malattie e guarire quelle incurabili. La nostra società sopporta un carico enorme di malattie evitabili, di disabilità e di anni potenziali di vita persi (16,6 anni pro-capite di vita persi, aggiustati per la disabilità-Daly, secondo l’Oms), che pesa negativamente sul sistema produttivo e sulla spesa sanitaria. È un peso di cui occorre disfarsi al più presto. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente nel 2018 gli inquinanti hanno causato in Italia 65.700 decessi prematuri, più che in Francia e Regno Unito. Secondo l’Istat e l’Istituto superiore di sanità vi sono in Italia almeno 20-30 milioni di soggetti a rischio di sviluppare tumori, malattie cardiache, diabete e altre patologie, perché obesi (5,2 milioni), ipertesi (14,9 milioni), fumatori accaniti (4,1 milioni), bevitori eccessivi di alcol (8,6 milioni), sedentari (23,1 milioni), dipendenti da droghe. Numeri che nell’ultimo ventennio sono in preoccupante ascesa (eccetto per il fumo) e causeranno un insostenibile carico di malattia (burden of disease) sul sistema sanitario e produttivo, se non si invertirà la tendenza. Una bomba a orologeria, già innescata.

Investendo sulla salute, si ottengono tre sicuri risultati per l’economia e la società: i) aumenta l’offerta e la produttività del lavoro e i salari sono più alti, ii) migliora il tasso di benessere della popolazione e cresce la propensione ai consumi e ai risparmi, iii) si abbattono, di conseguenza, le spese sanitarie, finanche al 2-3 per cento del Pil – rispetto al 9 per cento attuale –, perché il 70 per cento delle malattie è oggi prevenibile. Storicamente, la salute ha contribuito per il 30-40 per cento al benessere di oggi, secondo una ricerca dell’Unione europea basata sulla rassegna degli studi empirici pubblicati, che riporta stime, sempre molto alte, dei ritorni monetari dell’investimento in salute.

Le responsabilità dei cittadini

Servirà però un cambio di paradigma, dopo la pandemia, perché non basta lo sforzo solitario dello stato, bensì anche quello del sistema produttivo e di milioni di cittadini. Né bastano solo i soldi, perché serviranno anche visione di lungo periodo, nuove competenze professionali e molta tenacia politica. Il nuovo paradigma, coniato dall’Oms, è One Health: la salute deve entrare in tutte le politiche, perché tutto è interconnesso e la salute è parte fondamentale della felicità umana. Le evidenze scientifiche sull’efficacia dei programmi di prevenzione e di riduzione dei fattori di rischio esistono e si contano a centinaia ormai.

Lo stato può informare, persuadere, vietare, controllare, sanzionare, tassare, offrire diagnosi precoci e cure tempestive, ma anche l’agricoltura, l’industria alimentare, delle bevande, del tabacco, dei trasporti, dell’energia, dei pesticidi e tante altre devono riconvertirsi verso produzioni più sane, se non cessare del tutto quelle nocive alla salute – se veramente sentono la responsabilità sociale.

È ancora possibile invertire la tendenza, basta che lo stato e le istituzioni si mettano alla guida del cambiamento e che i cittadini lo vogliano davvero, perché il rischio è reversibile, dopo alcuni anni di astinenza, evitabile – e non necessario. Ma è indispensabile modificare gli stili di vita e abbandonare certe abitudini consolidate, soprattutto da parte dei giovani, i più vulnerabili. Del resto, il fondo non si chiama Next Generation EU?

Vittorio Mapelli - già professore di Economia Sanitaria presso l'Università degli studi di Milano - tratto da www.lavoce.info, per gentile cortesia



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