8 marzo. Quanto vale il lavoro delle donne?
16:51:6 5028Si dimentica spesso quanta ricchezza e benessere generano le attività gratuitamente prestate dalle donne. Valorizzare il lavoro di cura significa operare per superare le segregazioni occupazionali e retributive, per una società più giusta e più libera.
Il lavoro non retribuito delle donne
Quando si parla di occupazione femminile si fa di solito riferimento alla partecipazione al mercato del lavoro. Secondo i dati Istat per il 2021 solo poco più della metà delle donne tra i 20 e i 64 anni sono occupate (53,2 per cento, circa 19 punti percentuali in meno degli uomini), mentre oltre il 40 per cento sono “inattive”, cioè non cercano lavoro.
Se consideriamo, però, come lavoro anche quello che produce valori d’uso (e non solo quello impiegato nella produzione di beni e servizi scambiati sul mercato), benché non retribuito, il discorso cambia.
Le donne svolgono meno lavoro retribuito degli uomini, è vero, ma molto più lavoro gratuito. Si tratta di attività legate alla cura della propria casa e delle persone che ci vivono (siano bambini, adulti o anziani della famiglia), ma anche attività di volontariato organizzato, aiuti informali tra famiglie e tutti gli spostamenti legati allo svolgimento di tali funzioni. Gran parte di queste attività è svolta da donne, il 71 per cento per la precisione (nel 2014), sebbene le cose stiano progressivamente cambiando, ma con un riequilibrio molto lento, tra donne e uomini, del carico del lavoro di cura (tabella 1).
Non è una novità assoluta, e le donne questo lo sanno bene, ma si tende spesso a dimenticare quanta ricchezza e quanto benessere genera, per le famiglie e per l’intera collettività, il lavoro gratuitamente prestato soprattutto dalle donne.
L’Istat ha stimato, per il 2014, un monte ore di lavoro non retribuito pari a 71 miliardi e 364 milioni generato dal complesso della popolazione di 15 anni e più (tabella 2).
Per avere un’idea dell’importanza economica del dato, si consideri che le ore di lavoro retribuito in Italia, nel 2014, sono state 41 miliardi 794 milioni. Vale a dire che l’ammontare complessivo delle ore di lavoro non retribuito è pari a 1,7 volte quello del lavoro retribuito.
In termini monetari, il valore annuale della produzione familiare si aggira, sempre secondo l’Istat, intorno ai 557 miliardi di euro, il 34,4 per cento se considerato in percentuale del Pil dello stesso anno.
Una parte cospicua del benessere della popolazione del nostro paese dipende, quindi, dalla ricchezza non monetizzata prodotta in larghissima misura dal lavoro di cura prestato gratuitamente dalle donne.
Dare valore al lavoro di cura
Ancorché non retribuito, si tratta di un lavoro complesso e cruciale, non solo per la sopravvivenza, ma anche per l’intelligenza, l’equilibrio psichico, l’integrazione sociale e la qualità della vita delle persone. È un lavoro che a mansioni più semplici, come quelle del lavoro domestico, ne affianca altre più specializzate, che implicano conoscenze sanitarie, psicologiche, pedagogiche, capacità di risolvere i tanti e imprevedibili problemi della vita quotidiana, di tessere relazioni, di connettere la famiglia alle altre istituzioni sociali. Un lavoro che implica un’assunzione di responsabilità nel combinare le risorse disponibili per rispondere alla molteplicità dei bisogni espressi dalla comunità di appartenenza. Un lavoro socialmente necessario, quindi, ma storicamente considerato compito naturale delle donne.
È un lavoro sempre più spesso richiesto anche dal mercato (con la progressiva terziarizzazione dell’economia e l’ampliarsi della produzione di beni intangibili e servizi alla persona), ma a cui anche il mercato non conferisce un adeguato riconoscimento. Il sistema produttivo, infatti, tende a remunerare di più e meglio i contenuti del lavoro legati a caratteristiche considerate maschili (l’impiego di forza fisica, ad esempio) rispetto alle “soft-skill femminili”, ovvero alle capacità, competenze e saperi legati, per l’appunto, al lavoro di cura. Il lavoro di cura si riduce così a uno scambio che finisce per essere impari e che spesso subisce un deprezzamento, oltre che salariale, anche del ruolo e del prestigio sociale attribuito a chi lo esercita (prevalentemente donne) e continua a essere uno dei volti della segregazione occupazionale e retributiva.
A ben vedere, quindi, il problema dell’occupazione femminile e della diseguaglianza di genere riguarda innanzitutto il valore che la società attribuisce al lavoro di cura, le risorse che destina a queste attività, i riconoscimenti che è disposta ad attribuire a chi lo svolge.
Dedicare risorse collettive alla valorizzazione del lavoro di cura significa lavorare per il buon funzionamento della società e per accrescere le potenzialità del lavoro retribuito, non solo per le donne. Rivoluzionare la concezione che le nostre società hanno del rapporto tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo è lo strumento più efficace per agire in profondità sul superamento delle disparità di genere, oltre che su un’idea di società più giusta, libera e solidale.
Lucia Zabatta - per gentile concessione www.lavoce.info