Cives. L’impresa di Olivetti per uscire dalla crisi

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Una riflessione sull’esperienza imprenditoriale e umana di Adriano Olivetti è stata al centro del secondo incontro di “CIVES - Laboratorio di Formazione al Bene Comune”, svoltosi giovedì 27 novembre.
Invitato a raccontarla, Beniamino De’ Liguori del Centro Studi Fondazione Adriano Olivetti, direttore editoriale della ormai storica casa editrice Edizioni di Comunità e nipote del celebre imprenditore piemontese.
“Le idee incarnate da Olivetti, nell’ambito di quella che a suo tempo era una delle aziende più importanti al mondo – ha esordito Ettore Rossi, direttore dell’Ufficio per i Problemi Sociali e il lavoro della Diocesi di Benevento, nell'introdurre l'incontro – possono essere molto utili per uscire dalle difficoltà in cui oggi siamo immersi. Penso alla dignità del lavoro per il trattamento riservato ai propri dipendenti, al ruolo sociale dell’impresa per esempio per gli investimenti e gli interventi fatti al Sud, al rapporto stretto tra economia e territorio. Centrale era poi per lui l’attenzione alla ricerca e all’innovazione. Da questi pochi riferimenti si può cogliere l’attualità di questa storia imprenditoriale e sociale italiana”.
Dopo i saluti di Gallucci, presidente del Centro di Cultura “R. Calabria”, il quale ha invitato i partecipanti all’ottava edizione a far tesoro delle riflessioni per portarle nei luoghi che abitiamo quotidianamente, la parola è andata a Beniamino De’ Liguori, attento narratore dell’esperienza olivettiana come sperimentazione sui temi imprenditoriali e non solo.
“Dai suoi scritti – ha cominciato De’ Liguori – si percepisce la semplicità e la potenza delle sue idee, tutte direzionate al concetto di fabbrica produttrice non solo di beni, ma di Bene. La Olivetti, infatti, è stata un’impresa straordinaria, la prima multinazionale significativa italiana, ma ha avuto un ruolo fondamentale anche dal punto di vista culturale, attraverso il suo costante lavoro editoriale; e la forza del nostro progetto di riscoperta che stiamo costruendo è nel fatto che il suo racconto è portato tra le persone e non a un pubblico specialistico”.
La figura che emerge dal racconto è quella di un uomo eccellente dal punto di vista delle competenze e allo stesso tempo molto attento ai bisogni dei suoi collaboratori, per molti aspetti anche un significativo intellettuale capace di rompere qualsiasi schema interpretativo della realtà, a partire dalla convinzione ormai consolidata e dilagante secondo la quale profitto e solidarietà sono in conflitto. “Aveva compreso che bisognava utilizzare gli strumenti della modernità per andare incontro a un modello più solidale, – ha continuato – così come aveva colto che il rapporto con il territorio non è qualcosa di puramente formale ma è sensoriale, emotivo, e per questo le sue aziende erano dotate di enormi vetrate, le quali offrivano al lavoratore che proveniva dal mondo agricolo un contatto anche visivo con le proprie radici, e chi era fuori poteva vedere cosa accadeva all’interno dell’azienda; concedeva mutui a tasso zero agli operai per ristrutturare le loro cascine; ha portato il lavoro nel Mezzogiorno e non il contrario; introdusse nel 1945 il congedo di maternità per nove mesi quasi a parità di salario, oltre a numerosi altri servizi sociali (asili nido, biblioteche, scuole tecnico-professionali); si fece carico ad Ivrea di un sistema di trasporti molto articolato per evitare l’inurbamento eccessivo, a differenza di quello che stava accadendo a Torino. Olivetti credeva fermamente che un operaio più contento è una personale maggiormente realizzata”.
Una storia, dunque, che sembra molto distante da quelle che viviamo oggi, un’altra di quelle che appartiene ad una Italia che non c’è stata, ma che forse anche per questo dovrebbe maggiormente interrogarci sulla sua applicabilità risolutiva in questo difficile tempo.



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