Ambiente. Fridays for future, ultima chiamata per il pianeta

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Con manifestazioni in tutto il mondo, i giovani (e i loro genitori) chiedono alla politica di attuare misure immediate e concrete contro il cambiamento climatico. Movimenti simili in passato non hanno ottenuto grandi risultati: questa sarà la volta buona?

Una manifestazione di livello mondiale

Si è tenuta venerdí 15 marzo 2019 una delle più grandi manifestazioni mondiali, perlomeno nella storia recente, dedicata al cambiamento climatico e alla richiesta che la classe politica, in ogni paese, si occupi della questione. Il “Fridays for future” (#fff), questo il nome della manifestazione, si svolge in 123 stati diversi, e solo in Italia si prevedono 140 eventi (secondo paese al mondo dopo la Germania).

La peculiarità principale del #fff è di essere nato seguendo le orme di colei che possiamo definire l’attuale figura di riferimento sulla tematica: Greta Thunberg, sedicenne svedese che dalla scorsa estate ha avviato la tradizione degli scioperi per il clima ogni venerdì. Nonostante il tema non sia certo nuovo, la politica sembra ancora in ritardo e impreparata ad affrontarlo. Sarà la volta buona? Lo stato dell’arte nelle politiche ambientali dei vari paesi non ispira all’ottimismo, ma una prima verifica dell’impatto di #fff si avrà con le elezioni europee e con l’importanza che i partiti daranno alla tematica ambientale.

I costi dei cambiamenti climatici

Secondo l’ultimo report dell’Ipcc, il panel dell’Onu sui cambiamenti climatici, la temperatura media globale è aumentata di 1°C dal periodo preindustriale. Se vogliamo mantenerci entro la soglia di sicurezza del +1,5°C stabilita dall’Accordo di Parigi, le emissioni di gas serra dovranno ridursi del 45 per cento rispetto al 2010 entro il 2030 e raggiungere lo zero nel 2050 (al netto dei processi di riforestazione e di cattura e stoccaggio della CO2). Lo scenario più fattibile dei +2°C prevede comunque una riduzione del 25 per cento al 2030, ma con danni sensibili all’ecosistema. Del resto, le conseguenze negative da cambiamenti climatici sono già una realtà. Il database NatCatService dimostra che nel 2017 i danni economici dovuti a disastri naturali hanno raggiunto il livello record di 340 miliardi di dollari, con un trend in continua crescita. Il 7 per cento è dovuto a fenomeni geofisici come terremoti o eruzioni vulcaniche, mentre il restante 93 per cento è causato da eventi quali alluvioni, uragani, temperature e siccità estreme, che non sono per forza direttamente causati dai cambiamenti climatici ma ad essi sono legati in quanto ne aumentano l’intensità e la frequenza. Questo tipo di eventi si è triplicato negli ultimi 40 anni (figura 1).

Figura 1 – Numero di eventi naturali catastrofici (1980-2017)

Figura 1

Fonte: MunichRe, NatCatService

Di fronte a questi numeri ci si aspetterebbero reazioni coraggiose, decise e lungimiranti da parte dei governanti. L’Europa ha già messo nero su bianco il proprio obiettivo di azzeramento delle emissioni al 2050, ma bisognerà passare dalle parole ai fatti, poiché ciò implica passaggi intermedi come l’addio (“phase out”) al carbone entro il 2030 e un parallelo massiccio sviluppo della mobilità elettrica. La Cina, che insieme ai paesi asiatici è responsabile oggi di più della metà delle emissioni globali, dipende ancora troppo dal carbone. Allo stesso tempo, però, è leader negli investimenti nelle energie rinnovabili e ha varato un ambizioso piano di riforestazione che ha contribuito a rendere il pianeta più verde rispetto a vent’anni fa. Nel Nord America il dibattito appare decisamente più politico che tecnico-scientifico: negli Usa i democratici propongono un “green new deal” come cavallo di battaglia per le elezioni presidenziali del 2020, in contrapposizione ai conservatori negazionisti climatici (meno diffusi nel panorama politico europeo). In Canada, il premier Trudeau scommette parte della sua rielezione sulla proposta di carbon tax a livello nazionale, con il gettito che verrà restituito ai cittadini sotto forma di sconti fiscali. Di fatto, molte parole e grande dibattito ma poche azioni, a parte rare eccezioni, come la bipartisan US Climate Alliance, che conta ben 23 governatori, e la RE100, che raggruppa imprese private come Apple e Facebook.

Politica perennemente in ritardo

La manifestazione del 15 marzo si preannuncia come un successo, perlomeno a livello di partecipazione: ai meno attenti, o semplicemente ai più giovani, potrebbe sembrare che il movimento ambientalista e la consapevolezza del riscaldamento globale non siano mai stati tanto forti e diffusi nel mondo. In realtà, non è così. Solo poco più di dieci anni, nel 2007, il premio Nobel per la pace venne assegnato all’Ipcc e ad Al Gore proprio per le loro posizioni e i loro lavori sul riscaldamento globale (peraltro, il documentario di Al Gore vinse pure l’Oscar di categoria nello stesso anno). Quelle di dieci anni fa erano forse posizioni d’avanguardia? Tutt’altro: erano posizioni già allora preoccupate dei ritardi della politica. Per questo, oggi, la situazione appare ancora più drammatica. La novità, fattore di speranza e maggiore ottimismo, è che ora la sensibilità non deriva più solo dalla voce di élite politiche o ricercatori scientifici bensì direttamente dalla popolazione e in particolare dai più giovani. Sarà quindi molto interessante vedere se e come i leader reagiranno a questi segnali, già a partire dalle piattaforme programmatiche che i partiti europei presenteranno alle elezioni di fine maggio.

Paolo Balduzzieditorialista de "Il Messaggero", insegna Scienza delle finanze all'Università Cattolica - tratto da www.lavoce.info per gentile cortesia

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