La chiusura totale di ristoranti e bar rischia di mortificare gli sforzi compiuti negli ultimi mesi da migliaia di esercenti. L’apertura parziale, guidata da incentivi finanziari, garantirebbe molti vantaggi, incluso il contenimento della spesa pubblica.
A partire da ottobre, molti governi europei, Italia inclusa, hanno varato nuove misure di contrasto alla seconda ondata del Covid-19. I rinnovati lockdown hanno così colpito alcuni settori dell’economia, caratterizzati da maggior rischio di diffusione del virus, e in particolare ristoranti con somministrazione e bar. Al fine di compensare – almeno parzialmente – il danno individuale recato alle attività costrette a chiudere, i governi hanno fatto ulteriori sforzi per compensare le perdite private. Per quanto riguarda l’Italia, il 7 novembre, l’Agenzia delle entrate ha comunicato che la prima tranche di contributi a fondo perduto previsti dal “decreto Ristori-bis” è stata erogata automaticamente a 154 mila tra bar e ristoranti, per un costo totale di 726 milioni di euro.
Nonostante i ristori economici, diversi esercenti hanno manifestato contrarietà alla decisione del governo, ritenuta ingiusta in quanto impone verticalmente un interesse collettivo a scapito di uno privato e colpisce orizzontalmente tutti gli esercizi senza distinguere tra quelli che nel rispetto delle norme anti-Covid potrebbero continuare la propria attività e quelli che invece non potrebbero farlo. Non solo, la decisione di erogare il fondo perduto sulla base del calo di fatturato rispetto all’anno precedente penalizza fortemente le attività giovani anche se virtuose: poiché si trovano in una parabola ascendente, hanno subito un calo comparativamente inferiore del fatturato tra aprile 2019 e lo stesso mese del 2020. Secondo la Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) – nonostante le misure adottate dal governo – nel 2020 rischiano la chiusura definitiva più di 50 mila imprese del settore, con una conseguente fuoriuscita di almeno 300 mila lavoratori.
Come bilanciare le richieste legittime degli esercenti con la necessità di garantire adeguate misure di contenimento del rischio di contagio?
Una alternativa potrebbe essere quella di non imporre la chiusura dei pubblici esercizi e offrire – su base volontaria – un ristoro a coloro che non ritengono conveniente mantenere aperta la propria attività. La chiusura riguarderebbe soltanto il servizio al tavolo, mentre asporto e delivery rimarrebbero possibili. Chiaramente, coloro che decidono di restare aperti devono attenersi alle regole di distanziamento per prevenire il Covid-19, già in vigore questa estate: non più di un certo numero di clienti nei locali per metro quadrato. Se ciò implica inevitabilmente una riduzione parziale dei coperti, la decisione se la perdita sia sostenibile o meno deve essere lasciata al ristoratore.
L’utilizzo di una tassa (negativa in questo caso) per ovviare a un conflitto tra interesse privato (ristorante pieno) e interesse sociale (arginare i contagi) fa parte dell’inventario classico dell’economia dal famoso contributo di Arthur Pigou. Uno di noi – Daniel Gros (2020) – discute il vantaggio economico di una “tassa negativa” rispetto a un divieto in un recente contributo. Un ristoro economico alla chiusura, al posto di una chiusura forzata, offrirebbe una serie di vantaggi.
In primo luogo, sarebbe un modo per fornire una compensazione del reddito alle imprese più marginali a un costo fiscale ragionevole per le casse dello stato, riducendo al contempo le interazioni sociali nei negozi e nei ristoranti.
In secondo luogo, incoraggerebbe i piccoli proprietari di ristoranti e bar a modernizzarsi o, nel caso peggiore, ad abbandonare il mercato.
In terzo luogo, l’idea di un ristoro per la chiusura volontaria potrebbe essere estesa anche ai negozi. In questo caso, si eviterebbe la necessità di operare distinzioni arbitrarie tra beni essenziali e non essenziali.
La nostra proposta è che il ristoro volontario debba corrispondere a circa il 33 per cento del fatturato medio per metro quadrato: in base ai nostri calcoli corrisponde a 150 euro per i ristoranti e 50 euro per i bar.
Se applichiamo il nostro schema di ristori volontari sul campione di 154 mila tra bar e ristoranti che hanno beneficiato della prima tranche di aiuti e ipotizziamo un’adesione del 30 per cento degli esercenti – uno scenario plausibile alla luce delle dichiarazioni della Fipe – il costo sarebbe di 345 milioni di euro, circa il 50 per cento di quello attuale. La differenza significativa è che, per esempio, se oggi un ristorante con 100 m2 di superficie riceve intorno ai 7 mila euro, con il sistema di ristori volontari ne riceverebbe 15 mila.
Per concludere, un ristoro volontario invece che una chiusura forzata potrebbe essere un approccio più efficace per la gestione della seconda fase della pandemia. La chiusura totale del settore ristorazione e bar rischia di mortificare gli sforzi compiuti da migliaia di esercenti virtuosi in questi mesi. Un’apertura parziale, guidata da incentivi finanziari, garantirebbe anche un contenimento della spesa pubblica.
Francesco Corti e Daniel Gros - Rispettivamente ricercatore post-doc dell'Università degli Studi di Milano e presidente del Centre for European Policy Studies (Ceps) di Bruxelles - tratto da www.lavoce.info, per gentile cortesia
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