La promessa di tante nuove assunzioni e la necessità di chiamare moltissimi supplenti: il prossimo anno scolastico si apre con un paradosso. Perché i due serbatoi di reclutamento degli insegnanti si sono esauriti. La soluzione passa per tre condizioni.
Per il nuovo anno scolastico il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti vuole assumere 58.627 insegnanti, di cui 14.552 per il sostegno, che andrebbero ad aggiungersi ai circa 680 mila in ruolo. Nel contempo, il numero di supplenti annuali segnerà a settembre un nuovo record, sfiorando i 200 mila.
Per decifrare l’apparente paradosso va fatto un passo indietro, spiegando le regole che governano l’assunzione degli insegnanti in Italia. Sono meccanismi arcaici, il cui effetto sarà che moltissime cattedre a cui destinare i neoassunti rimarranno vuote per mancanza di candidati: come l’anno scorso, quando il ministero dell’Economia e Finanza aveva autorizzato 57 mila nuove assunzioni, ma ne furono possibili meno della metà. Perciò sono serviti e serviranno tanti supplenti.
Da decenni è previsto che le immissioni in ruolo avvengano da due canali. Nel 2006 il ministro Fioroni diede alla normativa la forma che ancora oggi conserva: metà degli assunti deve provenire dalle graduatorie di merito dei concorsi ordinari, l’altra metà dagli iscritti alle graduatorie a esaurimento (Gae), liste provinciali di docenti con l’abilitazione, ordinati per classe di concorso sulla base dell’anzianità di servizio e dei carichi familiari. Il problema è che entrambi i canali sono pressoché esauriti. I vincitori nel 2016 dell’ultimo concorso ordinario sono ormai in cattedra; il ministro ha annunciato nuovi concorsi, che realisticamente non potranno terminare prima del 2020.
L’altro bacino è stato svuotato della maxi-sanatoria voluta dal governo Renzi con la Buona scuola (oltre 90 mila assunti in ruolo soltanto nel 2015-2016, la maggior parte dalle Gae), che aveva proprio l’obiettivo di chiudere le graduatorie di abilitati una volta per tutte. Le prime a essere prosciugate sono state quelle delle materie matematiche e scientifiche al Nord, dove già da tempo erano in pochi; ma anche quelle un tempo assai consistenti dei docenti abilitati in altre classi di concorso, incluse le letterarie, sono ormai quasi esaurite in un numero crescente di regioni italiane. Particolarmente drammatica è la carenza di docenti qualificati al sostegno. Va sottolineato che per chi proviene dalle Gae, a differenza dei concorsi, non si può verificare l’aggiornamento e le capacità didattiche, sono persone in possesso di un’abilitazione spesso vecchia e con percorsi di formazione eterogenei: a soffrirne è in primo luogo la qualità dell’insegnamento.
L’esaurimento dei due serbatoi di reclutamento, in ogni caso, spiega perché non si riescano a trovare insegnanti abilitati per le assunzioni che servirebbero a coprire i posti vacanti. In altre parole, la crescita delle cattedre libere nasce da una riduzione dell’offerta di docenti che possono aspirare al ruolo.
Incidentalmente, quota 100 non ha molte responsabilità per l’aumento delle cattedre vuote. I pensionamenti di quest’anno, inclusi quelli in virtù della nuova norma, sono circa 36 mila. L’anno scorso, quando quota 100 non c’era, furono solo tremila di meno. La verità è che nella scuola il “tappo” della legge Fornero era già saltato, per effetto di Opzione donna e Ape sociale.
Che succede quando rimangono posti di ruolo vacanti? Si chiamano i supplenti annuali, che occupano la cattedra fino ad agosto o fino a giugno (termine delle attività didattiche). I supplenti oggi provengono in maggioranza dalle graduatorie di istituto per i non abilitati di III fascia oppure dalle cosiddette “messe a disposizione” (Mad), grazie alle quali qualsiasi laureato in una disciplina coerente con la materia di insegnamento può andare in aula. Fino a pochi anni fa un’eccezione, le Mad stanno diventando la norma per molte materie, anzi talvolta si ricorre anche ai non laureati.
Come risolvere il grave divario fra domanda e offerta di insegnanti nella nostra scuola? Nel breve periodo e con le attuali norme, si dovrebbero fare nuovi concorsi ordinari. Il ministro Bussetti ne ha promessi due (uno per l’infanzia e la primaria da 17 mila posti, l’altro per le secondarie da 24 mila). Purtroppo, però, ha annunciato anche due sanatorie che direttamente (con un concorso straordinario riservato da 24 mila posti) o indirettamente (con un Pas, percorso abilitativo straordinario da farsi all’università) porteranno in ruolo migliaia di precari che abbiano insegnato almeno 36 mesi. Il problema è che per questi ultimi, intenzionalmente, il percorso per andare in cattedra non sarà selettivo. E la sola anzianità di servizio (tre anni non sono molti, peraltro) non è un indice di competenza professionale. Lo ripetiamo una volta di più: se si vuole evitare di far sprofondare ancora la qualità dell’insegnamento, queste scorciatoie – un cronico vizio delle politiche scolastiche in Italia – non sono accettabili, anche di fronte a una seria carenza d’insegnanti.
In ogni caso, la soluzione per risolvere la situazione e contemporaneamente fare crescere la qualità dell’insegnamento è di lungo periodo: ridare prestigio alla professione insegnante e attrarvi i giovani laureati più qualificati. Si tratta di una strada percorribile – lo dimostrano paesi come la Finlandia – ma non facile. Sono almeno tre le condizioni necessarie.
La prima è una dura selezione iniziale, perché l’insegnamento richiede forti motivazioni e competenze elevate: non solo disciplinari, ma anche didattiche e relazionali. L’attuale governo sta facendo il contrario, riducendo i requisiti per entrare in ruolo alla sola laurea disciplinare.
La seconda condizione è dare prospettiva di carriera e di crescita retributiva a chi è capace e si impegna in compiti anche organizzativi. Oggi per chi è in cattedra non c’è alcun avanzamento di carriera, solo gradini retributivi per anzianità: così si scoraggiano i giovani più interessati a emergere. E se è vero che le retribuzioni dei nostri docenti sono inferiori alla media Ocse, lo è anche l’orario di lavoro; la vera anomalia è semmai la poca distanza fra retribuzione a inizio e fine carriera, che non ha eguali negli altri paesi.
La terza condizione è obbligare gli insegnanti, una volta in servizio, ad aggiornarsi sul piano disciplinare e ancor più su quello didattico, con esiti verificabili. Ora non è così, nonostante l’obbligatorietà della formazione fosse sancita dalla Buona scuola; il contratto di lavoro l’ha attenuata. E gli effetti si vedono nei dati Invalsi.
Andrea Gavosto - Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli dal 2008 - tratto da www.lavoce.info, per gentile cortesia
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