Approfondimento. Chi accoglie e chi no 70 milioni di profughi

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Guardia costiera, 888 migranti in salvo a 35 miglia dalle coste libiche (foto di archivio)Guardia costiera, 888 migranti in salvo a 35 miglia dalle coste libiche (foto di archivio)

Nel 2018 in tutto il mondo ci sono stati 70,8 milioni di profughi. L’Onu insiste sulla necessità di una gestione comune del fenomeno. Ma in tempo di sovranismo, queste persone rischiano di restare a lungo in una situazione di limbo giuridico e sociale.

I numeri del rapporto Unhcr

Come ogni anno, il 20 giugno, in occasione della giornata mondiale del rifugiato, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, Unhcr) ha pubblicato il suo rapporto, relativo in questo caso al 2018.

Il numero assoluto di profughi, 70,8 milioni, costituisce un record storico, superiore di 2,3 milioni rispetto a quello del 2017 e doppio rispetto a venti anni fa.

Il dato si scompone in 25,9 milioni di rifugiati veri e propri, che hanno già ottenuto lo status, a cui si aggiungono 3,5 milioni di richiedenti asilo, in attesa di conoscere l’esito della propria domanda (e purtroppo l’Italia è un esempio non certo positivo di procedure lente e complesse, che dilatano i tempi), e in 41,3 milioni di sfollati interni, che hanno abbandonato la propria abitazione ma rimangono all’interno del loro stesso paese.

Uno dei dati più significativi riguarda la distribuzione geografica: a differenza di quanto si potrebbe pensare, 4 rifugiati su 5 sono accolti in paesi confinanti con quello d’origine e oltre l’80 per cento dei flussi riguarda paesi in via di sviluppo. Tra i primi paesi di accoglienza, solo uno è occidentale (Germania, 1,1 milioni), mentre Italia e Grecia raggiungono rispettivamente appena 189 mila e 61 mila persone accolte.

Figura 1 – Primi 5 paesi per rifugiati accolti, dati in milioni (2018)
grafico chi accoglie più migranti
Fonte: Rapporto Unhcr Global Trends 2018

La crisi venezuelana

La principale novità del 2018 riguarda il Venezuela. Nel 2018 le richieste d’asilo da parte di cittadini venezuelani sono state 341.800, ma dal 2013 si calcola che gli espatriati siano all’incirca 4 milioni (circa il 13 per cento su una popolazione complessiva di 32 milioni). La crisi venezuelana ha investito l’intero continente americano, come dimostrano i numerosi incontri internazionali dedicati alla questione, ma il peso maggiore si è riversato sulla confinante Colombia, con 1,1 milioni di profughi. Nonostante sia un caso paradigmatico del diritto di asilo, la maggior parte dei 4 milioni di espatriati non ha ancora trovato collocazione nelle categorie dei richiedenti asilo o dei rifugiati. Il fatto poi che alcuni paesi, come il Perù, abbiano modificato le proprie regole per rendere più difficoltoso l’esercizio dei diritti da parte dei profughi venezuelani conferma la grande distanza tra teoria e pratica in materia di applicazione di norme ufficialmente condivise da tutti.

I minori

Un altro numero sul quale è necessario richiamare l’attenzione è quello dei minori: nel rapporto dell’Unhcr leggiamo infatti che circa la metà dei 70 milioni di profughi ha meno di 18 anni e, di questi, 111 mila sono senza famiglia. È un dato che va contestualizzato. La giovane età media dei paesi asiatici e, soprattutto, africani influisce sul risultato finale, poiché occorre ricordare che il 33 per cento dei rifugiati si trova (non diversamente dal passato) nei paesi meno sviluppati.

In un paese dilaniato dai conflitti come il Sud Sudan, ad esempio, l’età media è di 17 anni e così nel vicino Uganda troviamo 2.800 bambini sudanesi che hanno 5 anni o anche meno, in alcuni casi senza famiglia.

Quando però il viaggio dei minori non accompagnati li porta dai paesi poveri a quelli ricchi, per esempio attraverso il Mediterraneo, il quadro giuridico ed economico dello stato di accoglienza può variare notevolmente. Più completa e garantista è la giurisdizione, più elevati saranno i costi per il paese ospitante con inevitabili rischi di abusi.

Una riforma difficile

Alla fine delle 75 pagine del rapporto resta la sensazione che la teoria e le norme stabilite dagli accordi internazionali siano molto diverse dalla realtà attuale, per diverse ragioni.

Innanzitutto, la Convenzione di Ginevra, lo strumento principale che regola la questione dei rifugiati, risale al 1951 (quasi 70 anni fa), quando i “rifugiati” erano gli jugoslavi che fuggivano dal regime di Tito o i tedeschi dell’Est che cercavano riparo nell’Ovest. Oggi, non solo i flussi non sono più “Est-Ovest” ma “Sud-Nord” o “Sud-Sud”, visto che interessano soprattutto paesi limitrofi, ma sempre più spesso lo strumento della protezione internazionale viene utilizzato per regolare migrazioni miste, per cui è difficile distinguere le cause economiche, umanitarie o ambientali.

In secondo luogo, i diversi contesti geografici e politici rendono difficili molti paragoni e i differenti standard di accoglienza compongono realtà antitetiche che sono tenute assieme solo per comodità statistica. In Europa, ad esempio, non esiste uniformità nei tempi e nei criteri di esame delle domande e ci sono forti differenze nell’accesso al mercato del lavoro e nei costi e negli standard di accoglienza.

Infine, e forse è la questione principale, l’Onu richiama alla necessità di una gestione comune del fenomeno. Il Global compact sui rifugiati, approvato dall’Assemblea generale nel 2018, va in questa direzione. Peccato che il clima politico – nei tempi del sovranismo – vada nella direzione opposta. A New York, per esempio, la distanza geografica tra il vecchio edificio di vetro dell’Onu e la scintillante Trump Tower non è enorme, ma quella politica sembra oggi insuperabile. Ve lo immaginate Donald Trump discutere di nuove regole sull’asilo con il presidente messicano Andrés Manuel Obrador?

Per queste ragioni, i milioni di profughi in tutti i continenti rischiano di restare a lungo in una situazione di limbo, giuridica e sociale.

Enrico Di Pasquale Ricercatore della Fondazione Leone Moressa ed esperto di immigrazione - tratto da lavoce.info, per gentile cortesia



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